Il ruolo degli Stati Uniti nelle rivolte arabe: il caso dell’Egitto
Traduction: OSSIN
Analisi, febbraio 2011 - Quale è stato il ruolo degli Stati Uniti nella formazione degli attivisti che hanno scatenato la rivolta egiziana? Quale quello del Dipartimento di Stato e di personaggi come George Soros? Un'analisi controcorrente delle vicende in corso in Nord-Africa, che nulla toglie al coraggio e alla dedizione delle migliaia di persone che sono scese in piazza contro i regimi autocratici.
Non c’è niente di più commovente che  vedere un popolo riconquistare la libertà dopo aver subito il giogo del  dispotismo e ritrovare la sua fierezza dopo anni di umiliazione. Le  maree umane che sfilano per le strade, occupano le piazze, gridando  slogan sferzanti e irriverenti, utilizzando una parola da troppo tempo  confiscata, esibendo una dignità oltraggiosamente disprezzata: una vera  grazia divina.
 Ma il seguito di queste rivolte ci lascia perplessi. Che cosa hanno prodotto oltre alla cacciata dei regimi al potere?
 Andiamo a vedere. In Tunisia: un Ghannouchi che resta al potere  nonostante la condanna popolare e gli anni trascorsi a servire un potere  mafioso, un blogger che decide di ricoprire la carica di ministro in un  governo dal quale è stato personalmente maltrattato e migliaia di  giovani harraga che preferiscono fuggire in occidente piuttosto che  continuare la rivoluzione nel paese dei gelsomini. Stesso scenario nel  paese del Nilo: un Tantaoui, puro prodotto del sistema, che ha raggiunto  da un pezzo l’età della pensione, e che, senza chiedere nulla al popolo  sovrano, decide di mantenere le relazioni con Israele prima ancora di  interessarsi alla sorte dei suoi concittadini; un governo leggermente  modificato, i cui posti chiave restano sempre nelle mani degli  apparatcik del sistema; dei ritocchi cosmetici della Costituzione e una  richiesta di congelamento dei beni della famiglia Mubarak, formulata  dopo incomprensibili esitazioni, molto tempo dopo quella fatta nei  confronti di ex dignitari del regime.
 Questa è una “rivoluzione”? E’ possibile che l’elefante abbia partorito un topolino?
 I tiepidi risultati di queste rivolte possono essere compresi solo se si  analizzi la loro genesi. La maggior parte degli specialisti  “televisivi”, o di quelli che officiano sulla grande stampa, sono  d’accordo sul carattere spontaneo di questi movimenti. In linea di  massima, il popolo può essere considerato come una specie di pentola a  pressione suscettibile di esplodere sotto l’effetto di una pressione  sociale e politica troppo grande. Questa esplosione produce una reazione  a catena nei paesi vicini, simili per cultura e storia. Bisogna dunque  attendere con saggezza, preparare le telecamere e i microfoni per essere  pronti a “coprire”, al momento opportuno, gli avvenimenti che  agiteranno le piazze arabe.   
 Si tratta di un’analisi ingenua e grossolana che è difficile possa  essere accettata da parte di persone colte, titolari di cattedre,  direttori di riviste, che hanno passato la loro vita a scrutare ogni  minimo movimento di questa regione del mondo. Un po’ come gli illustri  economisti contemporanei che non hanno saputo prevedere l’attuale crisi  economica. Che cosa si sarebbe detto se un meteorologo non fosse stato  capace di prevedere un gigantesco uragano?
 Di fatto, ciò che colpisce dopo l’avvio dei moti tunisini, è la troppo  forte preoccupazione USA a proposito delle nuove tecnologie. I  molteplici interventi del presidente Obama e della sua segretaria di  stato in difesa della libertà di accesso a internet e la loro insistenza  perché i regimi che hanno a che fare con le manifestazioni popolari non  interrompano la navigazione in rete hanno qualcosa di sospetto.
 La signora Clinton ha anche affermato, il 15 febbraio scorso, che  “internet è diventato lo spazio pubblico del XXI secolo” e che “le  manifestazioni in Egitto e in Iran, alimentate da Facebook, Twitter e  Youtube, dimostrano la potenza delle tecnologie di connessione come  acceleratori del cambiamento politico, sociale ed economico”. Lei stessa  ha annunciato lo scongelamento di 25 milioni di dollari “per sostenere  dei progetti o la realizzazione di strumenti che agiscano in favore  della libertà di espressione on line” e l’apertura di profili Twitter in  cinese, russo e hindi dopo quelli in persiano e in arabo. D’altra parte  le “complesse” relazioni tra il Dipartimento di Stato USA e Google sono  state oggetto di ampia attenzione sulla stampa. E il famoso motore di  ricerca viene considerato come “un’arma della diplomazia USA”.
 Ma quali relazioni vi sono tra il governo USA e queste nuove tecnologie?  Perché dei responsabili di così alto livello assumono decisioni nella  gestione di imprese che si suppone siano private? E’ una situazione che  non può non ricordarci l’intervento simile durante gli avvenimenti  succeduti alle elezioni in Iran. Il Ministero USA degli Affari Esteri  aveva allora chiesto a Twitter di rinviare un’attività di manutenzione  che avrebbe provocato una interruzione del servizio, cosa che avrebbe  privato gli oppositori iraniani dei mezzi di comunicazione.
 Questi curiosi agganci tra il governo USA e le reti sociali in regioni  del mondo così sensibili e durante avvenimenti sociali così delicati é  molto sospetto, è il minimo che si possa dire.
 Altro elemento che attira l’attenzione: la fortissima esposizione  mediatica dei blogger, il loro collegamento con una rivoluzione definita  come “facebookiana” e l’insistenza sulla loro non-appartenenza a  qualsiasi movimento politico. Si tratta dunque di persone giovani e  apolitiche che utilizzano le nuove tecnologie per destabilizzare dei  regimi autocratici radicati nel paesaggio politico da decenni. Ma da  dove vengono questi giovani e come possono riuscire a mobilitare tante  persone senza avere avuto una formazione adeguata né essere collegati a  qualche associazione? Una cosa è certa: il modus operandi di queste  rivolte ha tutte le caratteristiche delle rivoluzioni colorate che hanno  scosso il paesi dell’est all’inizio degli anni 2000.
 Le rivoluzioni colorate
 Le rivolte che hanno sconvolto il paesaggio politico dei paesi dell’est o  delle ex-repubbliche sovietiche sono state definite “rivoluzioni  colorate”. La Serbia (2000), la Georgia (2003), l’Ucraina (2004) e il  Kirghizistan (2005) ne sono degli esempi. Tutte queste rivoluzioni, che  si sono chiuse con successi clamorosi, si sono basate sulla  mobilitazione dei giovani attivisti locali filo-occidentali, studenti  focosi, blogger impegnati e insoddisfatti del sistema.
 Numerosi articoli (leggere per esempio: John Laughland, “La tecnique di coup d’état coloré”, Réseau Voltaire, 4 gennaio 2010 – http://www.voltairenet.org/article1...)  e un rimarchevole documentario della reporter francese Manon Loizeau  (Manon Loizeau, “Les Etats Unis à la conquete de l’Est”, 2005. Questo  documentario può essere visto all’indirizzo: http://macanoblog.wordpress.com/200...) hanno analizzato a fondo il modo in cui queste rivolte si sono realizzate e mostrato che erano gli USA a tirare i fili.
 Infatti il coinvolgimento dell’USAID, del National Endowment for  Democracy (NED), dell’International Republican Institute, del National  Democratic Institute for Intarnational Affairs, di Freedom House,  dell’Albert Einstein Institution e dell’Open Society Institute (OSI) è  stata provata con chiarezza (leggere ad esempio: Ian Traynor, “US  campaign behind the turmoil in Kiev”, The Guardian, 26 novembre 2004 – http://www.guardian.co.uk/word/200...).
Queste organizzazioni sono tutte USA,  finanziate sia dal governo che da privati nordamericani. Per esempio,  la NED è finanziata con un budget votato dal Congresso e i fondi sono  gestiti da un Consiglio di amministrazione dove sono rappresentati il  Partito repubblicano, il Partito Democratico, la Camera di Commercio  degli USA e il sindacato AFL-CIO, mentre l’OSI fa parte della Fondazione  Soros, dal nome del suo fondatore George Soros, il miliardario  nordamericano, illustre speculatore finanziario.
 Sono stati avviati diversi movimenti per realizzare le rivolte colorate.  Tra essi, OTPOR (Resistenza in lingua serba) è quello che ha provocato  la caduta del regime serbo di Slobodan Milosevic. Il logo di OTPOR, un  pugno chiuso, è stato ripreso da tutti i movimenti successivi, e la cosa  dimostra una forte collaborazione tra essi.
 Diretto da Drdja Popovic, OTPOR predica l’ideologia di resistenza  individuale non violenta teorizzata dal filosofo e politologo USA Gene  Sharp. Soprannominato il “Macchiavelli della non violenza”, Gene Sharp è  il fondatore dell’Albert Einstein Institution. La sua opera “From  Dictatorship to Democracy” (Dalla dittatura alla democrazia) è stato  alla base di tutte le rivoluzioni colorate. Disponibile in 25 diverse  lingue (tra cui naturalmente l’arabo), questo libro può essere  consultato gratuitamente in internet e la sua ultima edizione data 2010.  La prima edizione, destinata ai dissidenti birmani di Tailandia, è  stata pubblicata nel 1993.
 Il caso dell’Egitto
 E’ stato il movimento del 6 aprile che ha costituito la punta di  lancia della protesta popolare egiziana e il principale artefice della  caduta di Hosni Mubarak. Formato da giovani della classe media,  attivisti, appassionati di nuove tecnologie, questo movimento ha, fin  dal 2008, sostenuto le rivendicazioni operaie.
 La prima collusione tra questo movimento e il governo USA è stata  divulgata da WikiLeaks. Si tratta di 2 cablogrammi (08CAIRO2371 e  10CAIRO99) datati rispettivamente novembre 2008 e gennaio 2010, che  mostrano con chiarezza strette relazioni tra l’Ambasciata USA del Cairo e  gli attivisti egiziani (WikiLeaks cablo 10CAIRO99 – http://213.251.145.96/cable/2010/01...; WikiLeaks, cable08CAIRO2371, http://www.wikileaks.ch/cable/2008/...).
 La blogger Israa Abdel Fattah, cofondatrice del movimento del 6 aprile,  viene nominativamente menzionata nel secondo documento come facente  parte di un gruppo di attivisti che hanno partecipato ad un programma di  formazione organizzato a Washington da Freedom House. Il programma,  chiamato “New Generation”, è stato finanziato dal Dipartimento di Stato e  USAID ed aveva come obiettivo la formazione di “riformatori politici e  sociali”.
 Questi stage di formazione negli Stati Uniti di attivisti egiziani  suscettibili di “rappresentare una terza via, moderata e pacifica” non  sono rari. Condoleeza Rice (maggio 2008) e Hillary Clinton (maggio 2009)  ne hanno incontrati alcuni, sotto gli auspici di Freedom House (FH).  Questi dissidenti hanno anche avuto dei colloqui con alti responsabili  dell’amministrazione USA.
 Gli attivisti di OTPOR, forti dell’esperienza accumulata nella  destabilizzazione dei regimi autoritari, hanno fondato un centro per la  formazione dei rivoluzionari in erba. Questa istituzione il CAMVAS  (Centre for Applied Non Violent Action and Strategies) ha sede nella  capitale serba e il suo direttore esecutivo altri non è se non Srdja  Popovic. Uno dei documenti che circolano in rete e che illustra gli  insegnamenti dispensati da questo centro è “La lotta non violenta in 50  punti”, che si ispira largamente alle tesi di Gene Sharp. L’opera vi fa  parecchi riferimenti e il sito dell’Albert Einstein Institution viene  citato come uno dei migliori sulla questione. CANVAS è finanziato, tra  gli altri, da Freedom House, Georges Soros in persona e  dall’International Republican Institute che vede nel suo direttivo anche  John McCain, il candidato alle presidenziali USA del 2008. D’altronde  quest’ultimo viene lungamente intervistato nel documentario di Manon  Loizeau e il suo coinvolgimento nelle rivoluzioni colorate è stabilito  con certezza. Inoltre gli autori dell’opera (tra cui Drdja Popovic)  ringraziano molto il “loro amico” Robert Helvey per averli “iniziati al  potenziale sbalorditivo della lotta strategica non violenta”. Robert  Helvey è un ex colonnello dell’esercito USA, associato all’Albert  Einstein Institution attraverso la CIA, specialista dell’azione  clandestina e decano della Scuola di formazione degli attaché militari  delle Ambasciate USA.
 La portavoce del movimento del 6 aprile, Adel Mohamed, ha affermato, in  un’intervista accordata al canale Al Jazira (diffusa il 9 febbraio 2011)  che aveva effettuato uno stage al CANVAS durante l’estate 2009, molto  prima dei moti di piazza Tahrir. Ha appreso le tecniche di  organizzazione delle masse e di comportamento di fronte alla violenza  poliziesca. In seguito ella stessa ha formato altre persone.
 Ahmed Maher, il cofondatore del movimento 6 aprile, ha dichiarato a un  giornalista del Los Angeles Times “che ammirava la rivoluzione arancione  ucraina e i Serbi che hanno rovesciato Slobodan Milosevic”.
 Un’altra somiglianza tra la rivoluzione serba e la rivolta egiziana è  l’adozione del logo di OTPOR da parte del movimento del 6 aprile, così  come hanno fatto le altre rivoluzioni colorate.
 D’altra parte il sito web di questo movimento contiene una lunga lista  di comportamenti da adottare dai membri in caso di arresto. Questa lista  assai dettagliata fa esplicito riferimento alla “lotta non violenta in  50 punti” di CANVAS.
 Tra gli attivisti egiziani, alcuni sono stati sotto i riflettori durante  gli ultimi giorni del regime Mubarak. Tra essi Wael Ghonim è una figura  rimarchevole che è stata in prigione per 12 giorni e, dopo essere stato  liberato, ha concesso un’intervista alla televisione egiziana Dream 2,  nel corso della quale parla della sua prigionia e scoppia in lacrime.  Questa performance audiovisiva ha fatto di questo cyberdissidente un  eroe suo malgrado.
 Formatosi all’Università americana del Cairo (una coincidenza?), Wael  Ghonim è un egiziano che vive a Dubai, dove lavora come responsabile  marketing di Google (un’altra coincidenza?) per il Medio oriente e  l’Africa del Nord. E’ sposato con una nordamericana (un’ennesima  coincidenza?). Wael è un attivista recente nel movimento del 6 aprile,  ma ha lavorato fianco a fianco con Ahmed Maher. Una cosa che desta  interesse nel corso del suo intervento televisivo, è la sua  dichiarazione quando gli hanno mostrato le immagini dei giovani uccisi  durante le manifestazioni: “Voglio dire a tutte le madri, a tutti i  padri che hanno perso un figlio: chiedo scusa, non è stata colpa nostra,  lo giuro, non è stata colpa nostra, è stata colpa di tutte quelle  persone che erano al potere e vi si sono attaccati”. Questa  dichiarazione dimostra che il movimento era organizzatissimo e che  nessuno di essi aveva previsto che vi sarebbero state delle perdite  anche tra i manifestanti, per la maggior parte giovani, che sono stati  contattati attraverso le reti sociali.
 Altra informazione sorprendente: il Presidente-Direttore Generale di  Google si è dichiarato “molto fiero di ciò che Wael Ghonim aveva  realizzato”, come se fare la rivoluzione facesse parte dei compiti del  responsabile di marketing di una qualsiasi impresa.
 La rivolta egiziana, come le rivoluzioni colorate, ha fatto comparire  dei personaggi “internazionalmente rispettabili”, pronti ad assumere  ruoli di punta nel cambiamento democratico e nella vita politica di un  paese. Il candidato favorito del movimento del 6 aprile è senza dubbio  Mohamed El Baradei, premio Nobel della pace ed ex direttore dell’Agenzia  internazionale dell’energia atomica (AIEA). Il battage mediatico  occidentale attorno alla sua “fondamentale” candidatura si è dimostrata  essere solo un petardo bagnato. Il popolo della piazza non l’ha  plebiscitato e lui è rapidamente sparito dalla scena. E’ interessante  sottolineare che El Baradei era il candidato preferito dagli Stati  Uniti. Infatti l’ex direttore dell’AIEA è componente dell’International  Crisis Group insieme a numerosi personaggi, tra cui George Soros (ancora  lui!). Il mondo è veramente piccolo, è il minimo che si possa dire.
 Infine notiamo che la NED, soprannominata la “nebulosa dell’ingerenza  democratica” da Thierry Meyssan è stata creata da Ronald Reagan per  fiancheggiare le azioni segrete della CIA. Il rapporto 2009 di questo  organismo mostra che ha assegnato circa 1,5 milioni di dollari a più di  30 ONG egiziane “per la crescita e il rafforzamento delle istituzioni  democratiche attraverso il mondo”, come recita il loro sito.
 L’utilizzazione delle nuove tecnologie, così incensato  dall’amministrazione USA, si dimostra essere uno strumento di prima  qualità per la lotta non violenta. Esse permettono di contattare un  numero impressionante di persone in un tempo record e di scambiare dati e  informazioni di grande importanza all’interno e all’esterno del paese.  Gli investimenti massicci effettuati dalle istituzioni e dal  dipartimento di stato USA in questo ambito hanno la finalità di  migliorare le tecniche di aggiramento della censura statale, di  geolocalizzazione degli attivisti quando sono arrestati e di  trasmissione di immagini e video che mostrino il volto inumano dei  regimi autocratici. Il recente annuncio della rete svedese Bambuser  sulla possibilità di diffondere gratuitamente, da un telefono mobile,  sequenze video in diretta e stoccarle istantaneamente in linea è un buon  esempio di ciò.
 Tuttavia, quando comincia l’azione, le tecniche di mobilitazione delle  masse, di socializzazione con le forze dell’ordine, di gestione  logistica e di comportamento in caso di violenza o di utilizzazione di  armi di dispersione delle folle necessitano di una formazione adeguata e  di lungo respiro. Nel caso dell’Egitto, ciò è stato possibile grazie  all’assimilazione dell’esperienza del CANVAS e alle formazioni  dispensate e finanziate dalle diverse istituzioni USA.
 E’ chiaro che la rivolta di piazza egiziana non è così spontanea come  pretendono la grande stampa e i suoi commentatori. Ciò che non toglie  niente al rimarchevole impegno del popolo egiziano che ha seguito i  leader del movimento 6 aprile e alla sua nobile abnegazione per  sbarazzarsi di un sistema corrotto per conquistare una vita migliore.
 Ma speriamo che la storica rivolta della piazza egiziana e il pesante  tributo che ha pagato in queste ultime settimane non siano confiscati da  interessi stranieri. Il recente veto USA contro un progetto di  risoluzione che condanna la politica di colonizzazione israeliana è di  cattivo auspicio. Il movimento del 6 aprile non è sensibile alla  sofferenza del popolo palestinese? 
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