La piazza Tahrir e la sua democrazia

 

 

 

Egitto, giugno 2012 - Da banale e abbastanza qualunque luogo sovraffollato di autobus e venditori di ogni genere, la piazza Tahrir si è trasformata, nello spazio di una “primavera” invernale, in epicentro dell’effervescenza sociale “democratizzante” dell’Egitto (nella foto, piazza Tahrir nel 1983)

 

Da banale e abbastanza qualunque luogo sovraffollato di autobus e venditori di ogni genere, la piazza Tahrir si è trasformata, nello spazio di una “primavera” invernale, in epicentro dell’effervescenza sociale “democratizzante” dell’Egitto (sotto, piazza Tahrir nel 2011)





Le diverse manifestazioni popolari che vi si sono svolte dall’inizio del 2011 hanno dimostrato che l’ideologia di resistenza non violenta, teorizzata da Gene Sharp, abbinata ad una applicazione pratica dei concetti acquisiti attraverso i formatori del “Center for Applied Non Violent Action and Strategies” (CANVAS, Belgrado), è indubitabilmente efficace nella destabilizzazione dei regimi autocratici (1). I giovani cyberattivisti e militanti “filo-democratici” egiziani, formati da organizzazioni di “esportazione” della democrazia (soprattutto USA), hanno saputo efficacemente combinare la potenza delle reti sociali nella mobilitazione delle folle nello spazio virtuale e la stretta applicazione, nello spazio reale, dei “metodi di azione non violenti” chiaramente messi a punto da CANVAS. Il presidente Mubarak ne ha pagato il prezzo: è stato cacciato dai “ribelli” della piazza Tahrir dopo tre decenni di potere non condiviso. Lo stesso Gene Sharp ha dichiarato che era particolarmente fiero di quanto i cyberattivisti egiziani avevano realizzato (2).

Ma, dopo questa storica giornata dell’11 febbraio 2011 che ha visto la rovina del rais, i successi del campo “rivoluzionario” si sono fatti piuttosto rari, nonostante la mobilitazione quasi permanente di piazza Tahrir.

Risultati deludenti  alle elezioni legislative arraffate dagli islamisti (3), un tasso di astensionismo molto elevato che testimonia di una forte disaffezione popolare, l’assenza di donne e copti nelle liste dei candidati alle presidenziali, la rinuncia di Mohamed El Baradei, il loro candidato alla magistratura suprema, e soprattutto il risultato scadente al primo turno delle presidenziali dei tre candidati sui quali avevano ripiegato: Hamdine Sabbani, Abdel Moneim Abou El_Foutouh e Khaled Ali (4).


Quando il primo turno delle presidenziali ha prodotto l’inatteso risultato del ballottaggio tra Mohamed Morsi, il candidato dei Fratelli Mussulmani, e Ahmed Chafik, l’ultimo primo ministro di Mubarak, i militanti “filo-democrazia” si sono sentiti spossessati della “loro rivoluzione”. Tutti i mezzi erano allora buoni per recuperare il loro “bene, a qualunque costo.


Alcuni di loro hanno predicato il boicottaggio del secondo turno per delegittimare le elezioni, mentre altri hanno proposto una alleanza coi Fratelli mussulmani tentando qualche intesa. Ma l’idea più sorprendente che è venuta fuori dalla mitica piazza Tahrir è stata quella del blocco del processo elettorale e della creazione di un ”consiglio presidenziale civile”(5). Questa proposta, antidemocratica se non semplicemente reazionaria, ha fatto scorrere molto inchiostro nel paese, alimentando numerosi dibattiti contraddittori. Suggerita dai tre sfortunati candidati del primo turno (citati precedentemente) e sostenuta dal campo “rivoluzionario”, comprendeva anche, secondo qualcuno, il coinvolgimento del candidato prediletto dei giovani cyberattivisti, Mohamed El-Baradei. La dichiarazione comune redatta dal triumvirato è stata sottoscritta a anche da molti piccoli partiti detti “progressisti” e dal famoso “Movimento del 6 aprile” (6), composto dai cyberattivisti protagonisti della rivolta di piazza egiziana(7).


Questa idea del “consiglio”, respinta sdegnosamente da Mohamed Morsi e dalla sua confraternita, non ha avuto lunga vita e alla fine è finita nel nulla (8).


Ma come si spiega che dei militanti che si vantano di essere “filo-democratici”, che hanno lottato contro il regime autocratico di Mubarak, che predicano la creazione di uno Stato di diritto rispettoso delle istituzioni, abbiano potuto chiedere di bloccare il processo elettorale, pietra miliare della democrazia, e di costituire un consiglio fantoccio dopo essere stati battuti nelle urne?


Di quale democrazia si parla quando si accetta la candidatura di Chafik, ex cacicco del regime vilipeso, invece di opporvisi fino a non partecipare alle elezioni se essa venga mantenuta, e poi si tenta di cambiare le regole del gioco durante la partita?


Quale legittimità avrebbe avuto un consiglio presidenziale formato da candidati nettamente battuti al primo turno, mentre sarebbero stati scartati quelli che erano stati democraticamente designati dalla prima elezione presidenziale libera (9) del paese?


Oppure il campo “democratico” starebbe per ricorrere alle tecniche che meglio sa utilizzare, vale a dire la mobilitazione delle folle in piazza Tahrir, per imporre all’Egitto la propria agenda, sfidando la volontà popolare che si è comunque manifestata per due volte contro di loro?


Strattonata dallo lo stato religioso di Morsi, da un lato,  e da quello militare di Chafik, dall’altro,  ed arbitrata da un campo “rivoluzionario” che galleggia su una democrazia “di circostanza”, il futuro politico dell’Egitto è destinato ad essere agitato.


A meno che, in un soprassalto di spirito patriottico, le forze politiche rispettino il risultato delle urne, mettendo in sordina i loro interessi di parte e lavorando alla costruzione di un progetto nazionale riunificante, fondato sul rispetto di ciascun Egiziano e nel quale il vivere-insieme non sarà solo una parola.


Liberata dagli autobus, dai venditori di tutti i generi ma anche da qualche militante che la occupa e che pensa che la democrazia è buona solo quando gli dà ragione, piazza Tahrir avrà allora la sua consacrazione ufficiale.



Note:


1. Ahmed Bensaada, «Arabesque américaine : Le rôle des États-Unis dans les révoltes de la rue arabe», Éditions Michel Brûlé, Montréal (2011) ; Éditions Synergie, Alger (2012).


2. Aimée Kligman, « Why is Gene Sharp credited for Egypt's revolution? », Examiner, 5 marzo 2011,
http://www.examiner.com/article/why-is-gene-sharp-credited-for-egypt-s-revolution


3. Benjamin Barthe, « La grande solitude des progressistes », Le Monde, 2 dicembre 2011,
http://egypte.blog.lemonde.fr/2011/12/02/la-grande-solitude-des-progressistes/


4. Ahmed Bensaada, « Égypte : la grande désillusion des révoltés de la place Tahrir », Le Quotidien d’Oran, 7 giugno 2012,
http://www.ahmedbensaada.com/index.php?option=com_content&view=article&id=181:egypte-la-grande-desillusion-des-revoltes-de-la-place-tahrir&catid=46:qprintemps-arabeq&Itemid=119


5. Courrier International, « Le futur président déjà contesté », 6 giugno 2012,
http://www.courrierinternational.com/article/2012/06/06/le-futur-presidentdeja-conteste


6. Essafir, « Les forces révolutionnaires pressent Chafik et ne s’entendent pas avec Morsi », 5 giugno 2012,
http://m.assafir.com/content/1338856395354954700/first


7. Ahmed Bensaada, « Arabesque américaine : Le rôle des États-Unis dans les révoltes de la rue arabe », Op. Cit.


8. Nile International, « Égypte: Le PLJ rejette la création d’un conseil présidentiel », 4 giugno 2012,
http://www.nileinternational.net/fr/full_story.php?ID=48733


9. Così considerate da tutti gli osservatori, anche quelli del campo « rivoluzionario » prima della promulgazione dei risultati


 


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